"Che sinistra è quella che fa vincere la destra?" "La tua". Questo encomiabile scambio di battute ha come protagonisti Bersani e Ingroia. E la racconta tutta sullo stato della sinistra nel nostro Paese. Da una parte abbiamo un partito che avrebbe il consenso ma è fragile nella sua struttura
ideologica e manca di un progetto politico, dall'altra abbiamo un agglomerato di partitini che vivono di testimonianza e che intendono garantirsi una rendita di posizione dall'opposizione.
Insomma da un lato un partito di amministratori il cui massimo orizzonte è un modello keynesiano del capitalismo e dall'altro un gruppo di nostalgici che ancora pensa che la rivoluzione sia
imminente.
C'è da preoccuparsi e molto anche. Paradossalmente tra queste due diversità c'è un tratto comune, mancano entrambi di quel rigore scientifico dell'analisi della fase, come si diceva una volta, e
dello studio degli strumenti necessari per affrontare il quadro che ci si rappresenta.
E' assente anche quella capacità di leggere la storia e fare tesoro dell'esperienze passate.
Negli anni 60 una parte del PCI scelse di dialogare con il capitalismo in una visione esclusivamente economica del governo della crisi, cercando una soluzione di programmazione economica che
rispondesse a valle alle istanze di redistribuzione della ricchezza che provenivano dal movimento operaio e non intervenendo a monte della formazione dei rapporti di produzione ossia attraverso
una scelta di politica economica che fosse in grado di intervenire su cosa, come e a quali condizioni si producesse. Un' operazione simile, fatte le dovute proporzioni tra le personalità,
il momento storico, le condizioni sociali, è stata poi perseguita diversi anni dopo con il patto tra produttori nella versione caricaturale veltroniana di cui la candidatura di Calearo fu
la manifestazione più evidente, finita come sappiamo e che in parte ci sembra essere richiamata dall'attuale scelta di candidare nel PD gli opposti, Galli e Epifani.
Tra i due periodi però c'è una differenza sostanziale. L'incontro della cosiddetta ala migliorista del PCI con i grandi rappresentanti del padronato italiano, si svolgeva in un una fase nella
quale il capitalismo aveva ancora un ampio margine di espansione e di sviluppo, in grado di assorbire anche alcune richieste provenienti dalla società con la diffusione di beni di massa, le
crisi economiche che si presentavano erano crisi nello sviluppo affrontate spesso con il sistema delle partecipazioni statali, una presenza dello Stato in aziende a partecipazione con il privato
che hanno avuto il compito di garantire forme di tutela per il lavoro ma anche capitale assistito e sacche di improduttività. Un sistema pieno di contraddizioni ma che trovava la sua logica
nell'industrialismo di cui era permeata l'intera società e anche larga parte del PCI, la convinzione che solo su una larga industrializzazione del Paese e una massiccia produttività avrebbe dato
risposte alle rivendicazioni salariali degli operai. In questo quadro erano del tutto assenti quegli elementi che negli anni successivi caratterizzeranno le richieste del movimento operaio,
qualità del lavoro, del bene materiale prodotto, alienazione dal lavoro, diritti soggettivi e collettivi dei lavoratori nelle fabbriche, la conquista del contratto nazionale, tutte quelle
rivendicazioni che furono il fulcro di quella grande ondata di protesta operaia che fu l'autunno caldo nel 69 e che portò alla Statuto dei lavoratori nel 1970.
L'attuale crisi che investe il mondo occidentale ha, invece, un carattere diverso, è una crisi di sistema, una crisi dello sviluppo; il capitalismo occidentale ha ormai raggiunto il massimo della
sua espansione ed è incapace di dare risposte che possano assorbire anche le spinte di giustizia sociale che avanzano nella società. Il capitalismo per salvare se stesso muta la sua natura, non
produce più beni materiali e l'accumulazione del capitale avviene attraverso la finanza e la speculazione e dei rapporti di produzione e delle relazioni industriali ne fa a meno. Anzi, fa di
peggio. Interviene limitando il perimetro dello spazio pubblico riducendo quel sistema di salario indiretto che è il welfare, comprime i diritti dei lavoratori e gli spazi di democrazia nei
posti di lavoro, applica un diffuso sistema di lavoro instabile, dilata il tempo di lavoro anche in orari asociali ( lavoro festivo, notturno), riduce di fatto le retribuzioni, in nome di una
inutile ricerca di competitività quantitativa, perché il mercato è saturo e non si creano le condizioni per la ripresa di un mercato interno depresso da condizioni salariali insufficienti.
In questo quadro, riproporre un'alleanza tra produttori (capitale e lavoratori) non ha ragione di esistere perché l'analisi dei rapporti di forza in campo non lascia spazio ai lavoratori per
modificare in meglio le loro condizioni di lavoro.
D'altro canto la vocazione minoritaria di condannarsi all'opposizione che si intuisce nelle proposte di quella parte della sinistra che si riconosce nel variegato schieramento di Rivoluzione
civile, non sembra rappresentare quella risposta alternativa necessaria alla ricostruzione di un pensiero nuovo a sinistra né essere l'espressione politica dei movimenti (movimenti? Quali
movimenti si muovono oggi nella società?) di cui forse troppo ambiziosamente aspirano. L'impressione che se ne ricava è che questo schieramento abbia solo la possibilità di creare una
concorrenzialità a sinistra, legittima per carità per chi abbia a cuore solo la rappresentanza di una testimonianza, senza, peraltro, riuscire ad essere davvero incisivi nemmeno per rendersi
credibili nelle proprie ipotesi di cambiamento radicale del sistema. Questa competizione la si legge ogni giorno nelle dichiarazioni degli esponenti di Rivoluzione civile che a ogni affermazione
del PD che sposta un pochino a sinistra l'asse di questo partito, rispondono spostando un pò più in là l'asticella per definirsi di sinistra. Emblematica di questo stato è stata la risposta data
alla presa di posizione di Bersani sulla riduzione delle spese per gli armamenti e, in particolare, per i famigerati F35; invece di accogliere questa posizione come un allargamento del fronte che
si oppone alle spese militari, sono stati solo in grado di dire che il PD non ha votato contro, a suo tempo, il provvedimento per l'acquisto. Non penso che la strada da seguire possa essere
questa, credo sia necessario, invece, per contribuire con idee e fatti nuovi alla definizione di un progetto politico da costruire, fare uno sforzo da parte di tutti di riconoscere le implicite
verità anche delle posizioni dell'altro. Nel 1970 "qualcuno" scrisse un documento sulla maturità del comunismo, leggendo questo non come maturazione di un momento storico per il quale la
rivoluzione del proletariato era possibile ma come la capacità del movimento comunista di comprendere i processi di mutazione dei rapporti di produzione e i cambiamenti sociali che essi
comportano aggiornando la critica al capitalismo e ricercando le soluzioni adeguate al cambiamento. Ecco se il terreno è questo, se la possibilità di incontro si base sul riconoscimento
dell'altro e sulla capacità di aggiornare la critica al sistema e assumere il lavoro come elemento centrale, allora è possibile tracciare il patto fondativo di una nuova rappresentanza politica
del lavoro. "Perché se tutte le mobilitazioni che proponiamo non si sedimentano, se non diventano progetto politico, se non c'è un partito capace di raccogliere e rappresentare queste esperienze,
ogni patrimonio politico rischia di disperdersi".
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