"IO SONO UN ISPETTORE E LEI NON E' NESSUNO". Questa è l'incredibile affermazione con la quale un'operatrice della Polizia di Stato si è rivolta a qualcuna delle persone che assistevano alla brillante operazione condotta, in un comune vicino Padova, dalle forze dell'ordine per trascinare via un ragazzino di dieci anni davanti a una scuola, conteso tra i genitori e in esecuzione di una sentenza di un tribunale.
Non entro nel merito della vicenda, molti se ne stanno occupando, dico solo che per svolgere compiti di tale delicatezza occorrerebbe personale specializzato, personale che soprattutto non usi la forza.
C'è altro in questa brutta storia che nessuno ha rilevato ma che se ci si fa attenzione è qualcosa di molto grave e pericoloso per la democrazia nel nostro Paese.
Quello che mi ha colpito sono due cose tra esse collegate: la frase,"io sono un ispettore e lei non è nessuno" e la città, Padova.
La frase detta dall'operatrice di P.S mi ha lasciato sconcertato, denota un clima profondamente cambiato nelle forze dell'ordine, un brutto segnale di arroganza figlio della sbornia di potere che fa ergere al di sopra del cittadino chi, invece,il cittadino dovrebbe tutelare.
Una frase del genere colpisce più di uno scontro fisico di piazza, è l'azzeramento dello Stato di diritto, dell'uguaglianza dei cittadini, è la mentalità di chi si fa strumento e braccio consapevole di una ingiustizia.
Padova. La città di Padova è stata sede del più famigerato reparto celere degli anni '70 e allo stesso tempo è stata anche la città del capitano Margherito, che di quel reparto faceva parte. Il capitano Margherito che ebbe il coraggio di denunciare gli abusi, le violenze, l'uso di strumenti atti a offendere non convenzionali da parte delle forze dell'ordine nelle manifestazioni di piazza.
Da quella città, da quelle denunce partì un lungo processo di democratizzazione della Polizia di Stato che si concluse formalmente con l'approvazione della legge 121/1981 che ha smilitarizzato la Polizia. Questo processo, però, non è mai stato portato a termine concretamente e negli ultimi anni ne vediamo le conseguenze.
La politica, i governi hanno scelto di mantenere quell'ambiguità tra apparato militare e forza di polizia civile, questo, per chi comanda, è utile; si può avere a disposizione una forza che puoi governare attraverso concessioni e garanzie di piccoli privilegi, salvo poi tagliare anche a loro risorse finanziarie e strumentali ma lasciando crescere una mentalità corporativa basata sul potere di agire impunemente che li eleva, come si diceva prima, al di sopra dei cittadini.
E così nei momenti di tensione sociale più forte, riemerge in alcuni quella tendenza non di applicare le leggi dello Stato ma di difendere il potere perché quel potere può regalare potenza, impunità, ebbrezza di superiorità.
In questo modo la Polizia di Stato, nonostante la legge e nonostante la sindacalizzazione, non ha mai percorso fino in fondo la strada del rinnovamento ed oggi assistiamo ad un processo inverso che riporta la Polizia di Stato indietro nel tempo di trent'anni, annullando di un colpo tutti principi democratici che hanno ispirato la riforma.
La Polizia di Stato torna ad essere, almeno negli atteggiamenti, non più il garante della sicurezza dei cittadini ma il guardiano del potere e, in quanto tale, mostra la sua faccia feroce.
Quando il Capo della Polizia, Prefetto Manganelli, dichiarò qualche tempo fa che la Polizia non doveva essere l'ammortizzatore sociale con il quale affrontare quei problemi di carattere sociale che la politica non sapeva risolvere, ho sperato che quel processo di democratizzazione si fosse compiuto ma il prefetto Manganelli, all'epoca, non sapeva ancora che sarebbe intervenuto il governo "tecnico".
Un governo che senza alcun mandato democratico, sta compiendo atti e riforme strutturali e strategiche nel nostro Paese che stanno modificando in peggio la vita di milioni di italiani.
E allora questo governo, per poter affermare il suo ruolo di fronte ai potentati economici internazionali, ha necessità che non vi siano contestazioni al suo operato, che la protesta venga zittita e ha, quindi, bisogno di una Polizia esclusivamente "tecnica" che deve solo reprimere.
Non è un accusa al singolo poliziotto la mia, anzi il poliziotto, quello che sta per strada, quello che svolge il suo ruolo di tutore dell'ordine pubblico, io lo difendo. Non fa una bella vita. Gli stanno togliendo tutto anche a loro.
La mia è un accusa al sistema Polizia che si fa servo e padrone allo stesso tempo. Servo di chi comanda e padrone delle vite degli altri che sono semplicemente, studenti, lavoratori, pensionati, disoccupati, precari. Gente semplice che conduce una vita dura e senza futuro per scelta, appunto, di chi comanda.
Accuso quel sistema che, per trarne vantaggio, si organizza per lasciare spazio agli individui in divisa, per creare un corpo distaccato dalla comunità civile e contro di essa, come se chi protesta fosse il nemico e lanciare il messaggio di stare a casa a chi ha intenzione di cambiare le politiche, ingiuste, del governo.
Quel sistema che ha prodotto la Diaz, che produce quel senso di impunità che permette ad alcuni cittadini in divisa di abusare della forza nei confronti di altri cittadini arrivando agli estremi degli Aldovrandi, dei Cucchi e di tanti altri, che produce quella cattiveria con la quale i poliziotti si scatenano sui nostri figli che vogliono una scuola diversa, migliore, pubblica.
Accuso il significato recondito che c'è dietro a quella frase arrogante: affermare un potere coercitivo e oppressivo.
"IO SONO UN ISPETTORE E LEI NON E' NESSUNO" non è uguale a " Lei non sa chi sono io", no è altro. Ricorda molto più quella scala sociale del feudalesimo dove esistevano i vassalli, i valvassori e i valvassini. Ecco quella frase mi fa pensare ai valvassini, miseri signorotti locali, l'ultimo gradino di quella gerarchia prima dei servi della gleba, che esercitavano un potere delegato in modo più oppressivo e violento del loro feudatario, per garantirsi guarentigie e privilegi.
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