Precariato intellettuale, una storia. -raccolta da Nonpercaso -

Questa è la storia di un rapporto di lavoro tra un gruppo di professionisti che vivono di precariato intellettuale da molti anni e un Istituto del Ministero. Un rapporto di lavoro che inizia con un contratto di collaborazione -a progetto sulla carta, parasubordinato nella realtà- e continua con un illecito amministrativo. Un rapporto che non essendosi ancora concluso mi costringe all'anonimato e a rendere non riconoscibili le istituzioni e le persone, i tempi e le circostanze ma non i fatti.


Nel momento in cui la crisi occupazionale in atto iniziava a farsi sentire, aggredendo per prime proprio le professioni intellettuali, il Ministero emanava alcuni avvisi pubblici per la costituzione di altrettante short list di esperti esterni all’Amministrazione. Poiché si tratta di una modalità di reclutamento di tipo clientelare che aggira la normale procedura di concorso pubblico, inizialmente non mi candido. Passano i giorni, il lavoro scarseggia, il pane anche. Colleghi di tutte le età si affrettano a presentare domanda e mi consigliano vivamente di farlo. “Se non passo io, passerà qualcun altro”, mi dico. E mi candido. Lavoro da così tanto tempo come collaboratore esterno per gli Istituti centrali e periferici del Ministero, che in Commissione mi conoscono quasi tutti. E alcuni mi stimano, persino. Passo. Passo perché è la qualità del lavoro che ho svolto fino ad allora con le persone che ora trovo in Commissione a raccomandarmi. Niente altro e nessun altro che il mio stesso lavoro. Non è per tutti così -apprendo-, ma firmo. Firmo un contratto di collaborazione della durata di 12 mesi, con impegno di 36 ore settimanali a 25.000 euro lordi per uno stipendio di 1.200 euro nette al mese. Piango di felicità. In dodici anni di precariato non avevo mai avuto un contratto di un anno così ben retribuito. Lavoro con altre persone, alcune più giovani, altre meno ma tutte immerse nella mia stessa precarietà professionale e -inevitabile drammatica ricaduta- personale. A tutte si chiede l’obbligo di firma in entrata e in uscita, l’orario a matita, la firma a penna. Per tutte si crea un account nominativo con dominio “beniculturali.it” dal quale inviare e ricevere posta elettronica. La retribuzione è subordinata alla presentazione di un resoconto mensile delle attività. Attività che possono essere svolte solo presso la sede dell’Istituto e secondo gli orari d’ufficio. Il contratto a progetto che ho firmato si trasforma, nei fatti, in un rapporto di lavoro parasubordinato. Capisco subito che quel che sono chiamato a fare non ha nulla a che vedere con le professionalità in gioco. Mi domando se potrò imparare qualcosa di spendibile quando il contratto sarà scaduto. Sollevo con la dirigente di riferimento fondate perplessità sulla correttezza metodologica di quel che stiamo facendo. Vengo prima ignorato, poi messo a tacere. Capisco che gli investimenti sul progetto sono ingenti anche se del tutto sproporzionati ai risultati. La colossale società informatica che fagocita la maggior parte dei soldi pubblici investiti nel progetto, produce un software farraginoso e pieno di malfunzionamenti per sanare i quali chiede di essere ulteriormente pagata. Il risultato è che noi collaboratori esterni non siamo autonomi dall'Amministrazione e questa non lo è dalla società informatica. Quanto risparmierebbe il Ministero se facesse un concorso per assumere una decina di sviluppatori e sistemisti? Passano i mesi. L’Amministrazione investe sulla formazione dei suoi collaboratori esterni più di quanto non faccia per quella dei suoi funzionari. Il progetto per cui siamo stati reclutati e in cui ci impegniamo ogni giorno prende lentamente forma. Il nostro lavoro, anonimo e collettivo, riceve un pubblico apprezzamento in occasione delle presentazioni ufficiali. Ne siamo felici. Ci consideriamo dei privilegiati non soltanto perché lavoriamo mentre la disoccupazione intossica molti dei nostri colleghi, ma perché abbiamo occasione di assimilare le competenze e il metodo di una intera generazione di conservatori del nostro patrimonio culturale, che non avrebbe altro modo di trasferire i saperi acquisiti. La scadenza dei nostri contratti coincide con un cambio di vertice. E’ una congiuntura alla quale sulle prime non diamo il giusto peso. Invece inizia un sistematico e inesorabile affossamento di quel che era stato fatto fino ad allora, compreso il progetto al quale stiamo lavorando. Il contratto viene rinnovato per un altro anno ma dimezzato nelle ore e nello stipendio. Io e i miei colleghi siamo costretti a integrare l’incarico con altri lavori. Alcuni ci riescono, altri no perché nel frattempo la crisi ha iniziato a mordere e molte delle società con cui avevano lavorato in passato sono fallite o stanno per chiudere. A luglio viene varata la Legge di riforma del lavoro. Mi precipito a leggere il paragrafo dedicato alla disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative. I contratti a progetto si possono ancora fare, purché ne sia rispettata la natura giuridica. Devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici opportunamente descritti. Devono essere funzionalmente collegati a un risultato finale. Al collaboratore devono essere lasciati margini di autonomia anche operativa e il suo compenso minimo va individuato secondo la contrattazione collettiva come avviene per i rapporti di lavoro parasubordinato (art.36 Cost.). Mi sento tutelato. Tiro un sospiro di sollievo ma pecco di ottimismo. Alla fine dello scorso anno, senza alcun preavviso, a meno di un mese dalla scadenza del contratto, veniamo messi con le spalle al muro. “Per continuare a lavorare con il Ministero dovete costituire una società o mettervi sotto una società cappello”, ci viene detto, “perché la Legge Fornero non ci consente più di stipulare contratti di affidamento diretto ma solo contratti di fornitura servizi”. Corro a rileggere l’articolo della Legge di riforma del lavoro con la consapevolezza che si tratta di una Legge dello Stato che lo Stato non può e non deve disattendere o, peggio, aggirare. Lo stampo. Torno dalla Dirigente e provo a far valere le mie ragioni anche a nome di quelli che hanno troppa paura per esporsi e che continuano a lavorare a testa bassa nel timore di perdere quel poco che hanno. Le faccio notare che perdendo noi perde anche lei, se è vero che il potere di un Dirigente si misura anche dal numero di persone che ha sotto di sé. Niente da fare. Mi dice che “non possono”, che “non ci sono i soldi”, che il Direttore generale non resterà ancora a lungo e che noi costituiamo uno “spinoso problema” da scaricare sul suo successore. In verità, sono terrorizzati dall’eventualità di una vertenza sindacale che li chiamerebbe in causa come privati cittadini. Una vertenza che loro stessi ci hanno messo in condizione di fare e di vincere. Ci consultiamo rapidamente, siamo tutti d’accordo: vogliamo vivere del nostro lavoro e non del risarcimento economico ottenuto da un procedimento giudiziario. Iniziamo a prendere informazioni su quanto ci costerebbe aprire una società e mantenerla in vita. Valutiamo attentamente i costi di tutte le ragioni sociali possibili, valutiamo perfino l’ipotesi di istituire un’Associazione culturale e di aprirci partita iva, sia a contabilità ordinaria, sia in regime dei minimi. Consulenti del lavoro, dottori commercialisti, associazioni di categoria, tutti ci dicono che con 800 euro al mese non potremo mai farcela e che saremo nella condizione di “pagare per lavorare”. Il mio commercialista mi vieta espressamente di fare alcunché: “meglio disoccupato che indebitato”, mi dice. Conti alla mano ma col morale a pezzi, torniamo dalla Dirigente. E’ ancora convinta che costituire la società sia per noi l’unica via possibile. Ha valutato l’ipotesi di metterci sotto una società già costituita che sarebbe titolare del contratto con l’Amministrazione e farebbe a sua volta dei contratti a progetto con noi, ridistribuendo gli utili versati dal Ministero all’emissione delle fatture. Questa società oltre a pagare il costo del nostro lavoro esattamente quanto lo pagheremmo noi stessi se ne fondassimo una, tratterrebbe su ciascuno stipendio -senza dare alcun valore aggiunto al nostro lavoro- una percentuale variabile dal 20 al 30% riducendo drasticamente la paga mensile da 800 a 300-350 euro netti. Troppo poco per viverci, soprattutto a Roma, dove quattro di noi sono anche fuori sede. Cerco una mediazione sindacale ma la maggioranza dei miei colleghi non mi segue per motivi ideologici e di opportunità personale. Andiamo avanti in tre ma agiamo nell’interesse di tutti, perché nessuno deve restare indietro. Dopo tre settimane di angoscia, grazie anche alla pressione di alcuni funzionari che temono, senza il nostro lavoro, di non riuscire a portare avanti neanche il loro, arriva una “soluzione temporanea del problema” che è peggiore del problema. Una “Società amica”, ossia una Associazione culturale senza fini di lucro, stipula con noi una prestazione occasionale di tre mesi. La lettera d’incarico è retrodatata per consentire all’Istituto di impegnare dei fondi che altrimenti avrebbe perso, e presenta come “oggetto” un incarico in linea con la natura dell’Associazione ma non del lavoro da noi effettivamente svolto, rispetto al quale, alla data di scadenza dell’incarico, saremo di fatto tutti inadempienti. Ciò significa che qualcuno, per poterci retribuire, dovrà firmare una falsa dichiarazione di conformità. In realtà il nostro lavoro non cambia: le ore, la retribuzione, i compiti, il luogo in cui lo svolgiamo sono gli stessi. Però ora non c’è alcuna copertura assicurativa perché noi lì non ci dovremmo neanche stare. E infatti ci viene chiesto di sostituire l’account di posta elettronica istituzionale che era stato creato all’indomani del nostro primo contratto con un account nominativo con dominio privato. I fogli di presenza sono aboliti, come pure i resoconti del lavoro svolto. Noi lavoriamo così. Sembrano le condizioni di un cattivo privato e invece sono quelle di un Ministero della Repubblica che preferisce compiere un illecito amministrativo, rischiando anche sul piano delle responsabilità penali, pur di aggirare le leggi che lo Stato stesso emana a tutela dei suoi lavoratori.

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Commenti: 2
  • #1

    erreerre (giovedì, 31 gennaio 2013 06:52)

    E una situazione diffusa. Nel caso che io conosco il ruolo delle Società Amiche è svolto da altri Enti Pubblici (università ,enti di ricerca, agenzie) ai quali vengono finanziati Progetti ma in realtà si pretendono persone. Tutti felici: gli enti perché incassano, i lavoratori perché soddisfano un‘ esigenza primaria, i dirigenti perché ottengono “risorse“ rapidamente e senza passare dal via (organici concorsi). La pratica non rappresenta una strategia dei Ministeri ma è uno strumento completamente nelle mani dei singoli direttori generali che dispongano di finanziamenti.
    Gli altri lavoratori? A volte sono contenti di avere qualcuno “ancora disposto a tutto“, altre percepiscono il pericolo che si voglia portare il diritto del lavoro su quegli standard a volte si preoccupa di questi lavoratori figli di un dio diverso.
    Il sindacato che fa? Di solito non riescead intercettarli. Qualche volta propone epiche battaglie. Secondo me dovrebbe lottare affinché queste situazioni non abbiano inizio.Se il persponale è necessario si assuma altrimenti stiamo finanziando con i soldi pubblici le clientele grandi o piccole dei DG. Per questi lavoratori inizia una spirale dalla quale non riescono ad uscire a causa della illusoria sensazione di essere vicini alla meta, perché si inseriscono in attività lavorative a vote gratificanti nelle quali si identificano (remembercil lavoro nobilita l uomo?) e infine perché là fuori è anche peggio.
    erreerre

  • #2

    Nonpercaso (giovedì, 31 gennaio 2013 14:41)

    Io naturalmente condivido. Solo una notazione: la proliferazione di questi rapporti di lavoro è conseguente alla deregolamentazione del mercato del lavoro avviata tramite le riforme degli ultimi anni. Il segno di queste riforme è quello di comprimere al minimo i livelli di rappresentanza collettiva, e quindi queste tipologie di rapporto di lavoro sfuggono per definizione alla possibilità di vertenze classiche sindacali. Per questo si fanno epiche battaglie o invece si ignorano. Le stesse politiche occupazionali non hanno nel pubblico condizioni di confronto sociale, ma solo governance burocratica. Per superare questi scogli occorre prevedere strumenti di rappresentanza che siano in riferimento all'intero ambiente lavorativo, e definendo condizioni minime di tutela per tutti. Non credo infatti realistico che nel medio periodo ci possano essere modifiche significative alle politiche di taglio agli organici ed al blocco delle assunzioni.