Metti che lavori nel pubblico impiego. Metti pure che per una fortunata combinazione hai una produttività misurabile, non aleatoria o legata alla tua mera presenza sul luogo di lavoro. Ed aggiungi che quello che fai produce benefici immediatamente percepibili nella comunità dei cittadini e che sul tuo lavoro si iniziano a misurare anche le speranze di uscita dalla crisi, che diventi improvvisamente importante dopo anni di sottovalutazione e indifferenza.
Hai un lavoro, fai un servizio, hai dignità e sei produttivo. Pur essendo uno statale.
Ti illudi. Non hai fatto i conti con i frutti avvelenati della meritocrazia, sì, quella cosa sbandierata al popolo come finalmente risolutiva dell'inguaribile fannullonismo che avvolgeva un mondo immaginario costruito in un immenso palazzone dove stancamente si trascinavano carte.
Ecco, la meritocrazia, un sistema dove ciascuno controlla l'altro, ed alla fine lo valuta. Dove la vera attività produttiva è il sistema di misurazione dell'altro con una gara a premi, con esclusi in partenza, e che vinca il migliore!
La meritocrazia nella versione corrente e volgare, per poter funzionare deve eliminare ogni forma di mediazione, individuale e collettiva; non ricomprende il fatto che tu possa giudicare il tuo di lavoro, che tu lo possa addirittura amare, pensare a come svolgerlo meglio, alla sua organizzazione. Che adesso diventa rigidamente centralizzata, in forma divisionale. Un sistema formale che accentua la tua alienazione, ma che soddisfa palati fini di economisti sognanti, di politici a cui non pare vero additare altri colpevoli, di giornalisti dall'inchiesta facile, dallo scoop sui poveracci. Poveracci. Così sono considerati i lavoratori. E la loro contrattazione solo un intralcio.
Un sistema perverso che non funziona. Non può funzionare. Ma desertifica e ampia lo spazio della stupidità autoritaria, del ricorso ai formalismi per mortificare quello che resta del tuo attaccamento al lavoro, alla sua dignità calpestata.
Lo so. Va sempre peggio. Sei un lavoratore della cultura, ma potresti esserlo della sanità, lavorare in un commissariato o in un tribunale. E ti stanno sottraendo pezzi di libertà insieme al salario, e, con essa, la tua produttività. Già. Sarai produttivo, ma non secondo le regole. Ed allora succede che interviene un organo burocratico supremo che decide che quello che tu fai non è produttivo poiché non è conforme alle disposizioni meritocratiche. Che non contemplano la contrattazione e a cui fa schifo la produttività collettiva. E quindi mandano a bagno il contratto integrativo, un pezzo di carta che ha consentito a milioni di persone in più di visitare il nostro bellissimo patrimonio culturale, quello di cui ci facciamo belli davanti al mondo e su cui sputiamo in privato. Un contratto che trasuda produttività, che fa aprire a Natale, a Ferragosto, il primo maggio. Che mantiene l’apertura per 11 ore in tutti i siti, che programma aperture serali, notti magiche, che ti fa vedere cosa è un archivio, cosa contiene una biblioteca, come si fa un restauro, cosa si scopre in continuazione nelle nostre immense memorie del sottosuolo. L’unico pezzo di carta che ha fatto la sua parte, sino in fondo, in un ministero disastrato dalle incapacità politiche e dalle malversazioni dei potenti. Un pezzo di carta non conforme ai desideri autoritari di un politico sadico e ignorante e di ottusi burocrati.
Già, sei ben pagato, secondo loro, per fare questo. Ma questo suona male, come fa un lavoratore ad essere pagato bene? Sei un costo.
Ti sei fatto la gavetta, il tuo precariato contrassegnato da un acronimo che poi ti è rimasto incollato come un marchio, atm, trimestrale, lsu, dueottocinque. E adesso ti ritrovi circondato da precari a vita, senza le tue speranze. Un vero schifo.
Ma sei produttivo e forse ti piace lavorare.
E ti potresti incazzare. Non so come la vedi, ma io credo che sia ora. Potresti misurarla sul serio, la tua produttività, e buttarla in faccia alla merda che vorrebbe convincerti del contrario.
Lo so, si tratta solo di un contratto integrativo.
Ma, pensaci, è un pezzo della tua libertà.
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