Il rumore dei morti senza lavoro - di Metis -

Conosciamo gli incidenti sul lavoro. Corpi inghiottiti dall’acqua durante “normali” opere di manutenzione, che precipitano dalle impalcature, respirano gas nocivi, prendono fuoco negli impianti ad alto rischio. Sono morti che producono rumore.

Abbiamo imparato a indignarci, a riconoscere le cause, a sostenere battaglie

 


per l’applicazione delle norme in materia di sicurezza.

Oggi, in tempo di crisi, abbiamo morti sul lavoro che se ne vanno in silenzio.

Una strage quotidiana, un elenco destinato a crescere. Quasi senza distinzione di classe.

Operai, impiegati, piccoli imprenditori, pensionati. Donne, ma soprattutto uomini.

Tanti. Senza voce.

Muoiono schiacciati dal peso dell’angoscia della disoccupazione e della perdita del posto di lavoro.

Muoiono perché non riescono più a garantire uno stipendio alle loro famiglie e ai loro dipendenti.

Muoiono giorno per giorno dopo una lunga agonia, con il senso di colpa verso coloro che lasciano.

Confinati negli spazi di cronaca dei quotidiani. Protagonisti nei programmi d’intrattenimento, perché in Italia tutto quello che fa notizia viene spettacolarizzato e consumato dalla televisione del dolore. E poi cancellato.

Questi morti invece ci appartengono. Sono compagni di lavoro, familiari, amici.

Ci appartengono più di quanto siamo disposti ad ammettere con noi stessi.

Interroghiamoci, perché piangere dopo è troppo facile. E non serve a niente.

Perché è successo? Cosa si può fare per evitarlo? Come possiamo aiutare chi vive e lavora con noi in una potenziale condizione di pericolo?

La sofferenza ha un suo modo particolare di farsi sentire. Lascia tracce evidenti. Tende a ripetersi. Ha il volto della tensione, del disagio, della solitudine, dell’isolamento, della rassegnazione.

Il dolore s’impossessa di noi con pazienza infinita, scavando solchi profondi come caverne, dove ci nascondiamo per non fare entrare nessuno.

Tendiamo a ignorarlo facendo finta che sia un malessere passeggero. Solo una questione di tempo. Cominciamo con lui una convivenza forzata, sopportandolo quotidianamente.

E commettiamo l’errore di non chiamarlo per nome. Di non parlarne con gli altri, che tanto non serve a niente. Gli permettiamo d’infamarci con la vergogna, il senso d’inutilità e di fallimento. Cominciamo una lotta impari contro noi stessi, sconfitti in partenza, perché ogni perdita ha radici esistenziali profonde e delicate. Stiamo parlando di lavoro, un bene prezioso e simbolico che si lega indissolubilmente alla persona e la qualifica come essere umano degno di stima e rispetto, con un ruolo nella famiglia e nella società. Questa perdita appare pertanto insopportabile.

La paura diventa padrona, si gonfia e divampa fino a togliere ogni contatto con la realtà, imprigionandoci nella nostra emotività fragile e sofferta.

Bisogna ripartire dal nostro mondo interiore, imparando a non lasciarlo in silenzio, a non disprezzare le ferite dell’animo. La rabbia, la violenza, l’aggressività non sono altro che grida di aiuto, manifestazioni di un disagio profondo che impone attenzione consapevole.

Possiamo ricercarla nel luogo di lavoro, dove ci incontriamo e stiamo a contatto per molte ore al giorno. Possiamo creare un gruppo di ascolto, una cintura di sicurezza che veicola la comunicazione verso un tempo e uno spazio comuni, in cui restituiamo significato alla Parola intesa come testimonianza, alla presenza e al sostegno reciproco. “Muovere” all’ascolto, in questo caso, può essere la prima terapia efficace di pronto intervento e di auto-aiuto. Per noi e per chi ci sta accanto.

 

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Commenti: 1
  • #1

    DoReMi (domenica, 07 aprile 2013 18:25)

    che esagerazione!!