Ex ministro Bray, la storia e il suo fine - di Nonpercaso -

Sembra ormai quasi sbiadita, la figura del ministro che girava per monumenti, musei e siti archeologici mischiandosi ai turisti, annotando scrupolosamente sul suo taccuino l'onere di un incarico assai gravoso, patrimoni immensi da tutelare, conservare e valorizzare coniugando con le politiche del turismo, dono di un governo effimero, nel programma e nei fatti. La sua aria apparentemente mite, una certa


disponibilità a concedersi al dialogo, solenni proclami accompagnati da atti umili di viaggiatore avevano subito conquistato una platea interessata ma difficilmente disponibile a concedere crediti, guidata da autorevoli fustigatori dei costumi decadenti di chi aveva fino allora guidato la Cultura. Platea che aveva riposto in questo signore austero e gentile la speranza di rimuovere sedimenti e polvere da un ministero sclerotizzato da decenni di intrecci perversi tra burocrazie e politica e avvolto da un declino che pareva ineluttabile.

Un risveglio improvviso dopo che era parso toccare il fondo con ministri che impegnavano il giovedi a discutere dell'identità cristiana dell'Europa o talmente grati ai propri maggiorenti politici da nominare un ladro alla direzione di una Biblioteca prestigiosa, dove aveva fatto man bassa girando parte dei libri rubati allo stesso maggiorente.

Un ministro insomma che spiccava nel grigiore del governo Letta, una lampadina di speranza.

 

È finita con un tweet crudele, con una 'a' sfuggita alla tastiera ma non al web.

"Come tutte, anche questa storia ha un fine". Intendeva scrivere "ha una fine", cribbio.

Il web a scompisciarsi, i giornali pietosamente a nascondere.

 

Ma io mi son chiesto lo stesso quale fine ha questa storia.

In questi mesi anche io ho annotato scrupolosamente i suoi movimenti, analizzato i suoi provvedimenti, misurato i suoi annunci.

Li ho misurati come fa un burocrate. Già,  il mio compito mi porta spesso ad immedesimarmi nei miei interlocutori, e i potenti burocrati sono tanto vituperati quanto sconosciuti. Io invece li ho catalogati tutti, dai militari ai prefetti, passando per i ragionieri. Tutti in  relazione ai contesti in cui operano, ognuno diverso dall'altro, eppure tutti permeati dal medesimo linguaggio misterioso e inaccessibile.

La conoscenza del linguaggio burocratico è la precondizione per addentrarsi, per riuscire a cogliere il nesso complesso dei rapporti tra la politica e l'amministrazione,  quali sono le condizioni culturali dell'intreccio.

La burocrazia del Mibac è del tutto particolare, figlia delle buone famiglie della borghesia italiana dei tempi d'oro. Tradizionalmente poco attenta alle regole, ha gestito per decenni il patrimonio culturale con sufficiente attenzione alla sua tutela e del tutto disinteressandosi delle prassi amministrative noiose, perpetrando i propri delitti con leggerezza tipica e insostenibile, quasi eterea nella sua impunità. I Soprintendenti imperavano come figure leggendarie, il superiore ministero governava discreto e accondiscendente.

La fine del prebendismo democristiano, l'avvento dello spoil system hanno man mano esteso gli intrecci in modo trasversale e aumentato esponenzialmente le poltrone dei direttori generali. Tutti rappresentati, dalla destra curiale alla sinistra radical chic, in un sistema sempre più complesso di gestione di potentati,  con l'aiuto dei riformismi di risulta e la spinta delle logiche di mercato che qualche ministro meno imbolsito aveva introdotto. Costringendo ad una apertura al magico assioma della valorizzazione, parola in seguito e a venire sbranata da appetiti mai sopiti verso la gestione e l'utilizzo di beni apparentemente sfruttabili come giacimenti petroliferi, a cui graziosamente vennero assimilati i nostri beni culturali dai soliti liberisti postmoderni.

La crisi e i tagli hanno presto disvelato queste miserie, costringendo l'alta burocrazia a ripiegare in attesa di tempi migliori, adattandosi a gestire, senza ardire di protestare, sempre più risicati bilanci dati a un ministero tuttalpiù utile per medagliette, ma mai percepito come importante. Il tutto senza che si registrasse alcun  mutamento nelle prassi gestionali accompagnate dal solito sorvolio verso fatti e misfatti, la cui allarmante frequenza indurrebbe normalmente i comuni mortali a ragionevoli preoccupazioni.

Questo contesto consiglierebbe chiunque ad un approccio prudente, tranne il Ministro che, nei corridoi ministeriali, mette subito in mostra un'insospettabile irruenza, attaccando frontalmente l'alta burocrazia, tra gli entusiasmi crescenti della sua qualificata clacque e molta preoccupazione tra i grands commis, la cui posizione diviene improvvisamente assai precaria.

L'input riformatore si trasforma subito in un provvedimento di grande respiro, dal nome pretenzioso. Riparte Pompei, i fondi europei, finiscono i tagli al bilancio e si aiutano gli artisti, tornano soldi al disastrato bilancio del ministero. E, cazzo, riparte anche l'occupazione, 500 giovani al lavoro nella cultura, grandi annunci, si spreca Letta.

Poi una bella Commissione per la riforma del ministero, ci mettiamo tutti, ma proprio tutti. E vogliamo sentire tutti, per fare una bella riforma condivisa.

Minkia, vuoi vedere che.....

 

Noi, burocrati per forza, avevamo subito annotato che i 500 giovani non avrebbero avuto alcun posto di lavoro, e che gli annunci sarebbero boomerangati in faccia quando poi tutti si sarebbero accorti del bluff.

Sempre iper critici, avevamo pensato che fare una direzione generale di progetto avrebbe appesantito il già pesante apparato su Pompei, ritardando i tempi e amplificando le mire di potenti cordate manageriali.

Ma, sai, forse l'inesperienza del ministro viaggiatore, magari la riforma potrá davvero migliorare, dare chances, risolvere.

 

Per Bray l'esperienza si conclude prima ancora dello scherzetto di Renzi a Letta, travolto da una riforma insostenibile, ritirata precipitosamente due giorni dopo la sua presentazione, un sogno riformatore infranto su una pioggia di critiche. Archeologi infuriati per lesa maestà,  intellettuali ex entusiasti in presa di distanza,  giovani inviperiti per la beffa dei 500, associazioni sul piede di guerra, persino il Senato incavolato, hanno man mano lasciato il ministro da solo con il taccuino in mano e un tweet sbagliato ma rivelatore.

Una riforma sbagliata, che sembra fatta al chiuso di una stanza su un collage di mediazioni schematiche che ha finito per scontentare tutti.

 

Questa storia, come ogni storia, ha un fine.

Sto assistendo in questi giorni alla battaglia sul web tra sostenitori e detrattori del ministro viaggiatore, tra quanti hanno sperato fino all'ultimo in una sua improbabile riconferma e i tanti invece poco affranti dalla precoce caduta. Una disputa, come tante, inutile.

Ripenso al triste riformismo all'italiana,  alle discussioni infinite su progetti ambiziosi che restano su carta,  a tutto quello che rimestola nel ventre molle di una classe dirigente allo sbando, incapace di percepire la sostanza dei cambiamenti e ostinatamente ancorata alle proprie visioni deformate della realtà, convinta ancora di poterla ridurre alle proprie convinzioni. E mi chiedo se questa storia non abbia come fine la sua inutilità.

 

Grandi sospironi di sollievo provengono dai corridoi del ministero: avanti un altro!

 

Si ricomincia, come  ogni storia che ha un fine.

 

 

 

 

vuoi condividere?

Scrivi commento

Commenti: 0