La velocità assassina del renzismo e gli scontri generazionali - di Nonpercaso-

Lo confesso. Sono uno di quelli quasi sopraffatti da questo rigurgito di giovanilismo, da questa ribellione ai padri, addirittura dal loro assassinio. Stiamo assistendo ad un conflitto generazionale cruento, di quelli che non fanno prigionieri. L'età della giovinezza, che si era paurosamente innalzata sospinta da un precariato perenne e da famiglie ancora protette dal welfare


all'italiana, è improvvisamente ritornata nei suoi recinti naturali, ancorché precari. I criteri di concorsi pubblici ormai somigliano sempre più a curriculum per gli ennesimi stages, si arrovellano il cervello per trovare viuzze burocratiche che favoriscano l'inebriante giovinezza di un popolo che ha dimenticato la sua stanca vecchiezza. Così assisto all'amarezza di amici quarantenni, professionisti della cultura e della precarietà, troppo vecchi per migliorare la loro precarietà con un tempo determinato che viene destinato solo ai più giovani, tagliandoli fuori da un mercato del lavoro alimentato sinora solo dai loro contratti flessibili, con il sogno quasi spento almeno di un rapporto a tempo. Una norma dal titolo eccessivamente pomposo fissa un limite anagrafico iniziale di 29 che poi la generosità del Parlamento porta a 40 anni, per poter avere questa opportunitá nei beni culturali. Escludendo soavemente tutti coloro che da anni si trascinano con contratti di molta collaborazione poco coordinata e assai continuativa, fottuti da questo repentino passaggio senza confort in terza età.

Una cosetta veloce, in fondo. Un bel decreto e casomai la fiducia alle Camere se non si fa in tempo.

La velocità è essenziale, dove ci sono i più deboli si fa prima

Così muove questa nuova onda riformista, con passo leggero sorvola su drammi umani e istituzionali, con passo frettoloso decide. E piace da morire questo incedere del premier, da solo un concentrato di un tipo italico: simpatico, sbruffone, cialtrone quanto basta. Uno capace di rendere banali riti ormai consolidati, di quelli che ti fanno le battute al bar, che infarcisce i suoi discorsi di citazioni sincretiche, provenienti da personaggi messi in fila come le figurine panini. Pronto a rovesciare il peggio sui suoi avversari, a sbattere il suo 40,8 percento sui tavoli europei, ad additare colpevoli. E pronto a farsi scudo della velocità, non importa quanto tempo ci metti basta dare l'impressione di andare di fretta. Fretta che segna la disinvoltura con cui si svuotano principi basilari della loro sacralità, riportandoli nell'armamentario dei luoghi comuni. Il trionfo del post moderno.

Mi ha costretto ad essere veloce, il rodomonte. Ho dovuto scegliere in fretta di abbandonare un partito che avevo contribuito nel mio piccolo a costruire e di navigare a vista in un mare magnum di discordia post ideologica. Ho persino scelto della mia vita, del mio portato. Nulla di drammatico per intenderci, ma certamente una decisione veloce accompagnata dalla spiacevole sensazione della sua possibile inutilità, dal potersi ritrovare improvvisamente catalogato tra gli epigoni di un'epoca dove il patto sociale adombra disprezzati retaggi di cose passate e diventa una noiosa perdita di tempo.

Leggo le invettive su chi ha studiato e li scopro dipinti come una casta intellettuale composta da professoroni saccenti e irresponsabili, assisto a questo spezzatino delle responsabilità ove si solletica l'additata e si sommergono le responsabilità quelle vere, quelle attribuibili a chi ha fatto scelte rovinosamente concrete che adesso vengono messe nella lavatrice catartica del cruento cambio generazionale.

Ma, nel mio piccolo, mi chiedo cosa potrò fare per i miei amici quarantenni, che sembrano non avere più chances, cosa potremo fare per combattere, sanare una ingiustizia così evidentemente crudele. Potrebbe sembrare una nuova trincea, ed in parte è segno tangibile di arretramento sui diritti, ma potrebbe essere una nuova frontiera.

E, nel mio piccolo, non vorrei soccombere a questa ondata, a questa sordida battaglia anagrafica di cui in fondo non mi importa nulla. Mi domando se questa battaglia non possa diventare culturale, sintesi tra la percezione degli stili di vita e le rivendicazioni di libertà sociali e del lavoro. Se non si possa in sostanza ampliare l'idea di ciò che potremmo rappresentare collettivamente oltre i nostri interessi specifici, in modo nuovo rispetto al prima. Mi chiedo se nuove alleanze non possano sostituire quelle antiche, se questa rottura arrogante non possa diventare opportunità per la costruzione di un nuovo patto solidale, che combatta questa radicata idea del leaderismo d'accatto, degli uomini della provvidenza. Una battaglia anche culturale in cui collocare quella per i miei amici quarantenni e per tutte le incolpevoli vittime dello spianatoio riformista.

Mi chiedo tutto questo in questa strana estate variabile, e le mie nuotate scandiscono i miei pensieri, ritrovando insospettate energie.

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