Nel secolo scorso siamo stati educati ad attribuire significato ai beni immateriali, identificando la cultura civica, la cultura storica e la cultura della memoria come valori imprescindibili nella nostra formazione.
Con l’avvento della globalizzazione e del consumismo sono cambiate le prospettive di vita e di convivenza comune. I diritti e le tutele dello stato sociale, conquistati a prezzo di sacrifici, lotte civili e percorsi legislativi di lungo periodo, sono stati progressivamente erosi, indeboliti e infine smantellati in breve tempo, di pari passo con la spersonalizzazione dei rapporti umani, appiattiti da meccanismi di competitività sfrenata, di comunicazione virtuale e di annullamento dei tradizionali luoghi di aggregazione, incontro e confronto delle comunità.
L’estensione delle leggi di mercato a ogni tipo di “processo” – non solo produttivo – ha contribuito all’isolamento delle persone, accrescendo il divario tra ricchezza e povertà con l’indebolimento delle “speranze di vita”
della popolazione giovane, che soffre per la mancanza di lavoro e di prospettive.
In questo contesto, in via di definizione, resta ancora in vita tutto ciò che abbiamo sempre considerato patrimonio culturale appartenente alla collettività: biblioteche, chiese, palazzi, musei, aree archeologiche, parchi naturali, eccetera.
Il patrimonio pubblico, che la costituzione italiana identifica come bene comune, ha tuttavia subito processi incontrollati di espropriazione dell’identità, in quanto la classe politica ha avvallato l’applicazione di metodologie di utilizzo e gestione finalizzate allo sfruttamento economico.
In questo caso avviene la prima negazione del mandato di un bene culturale pubblico, atto a favorire processi di aggregazione e sviluppo di tutta la cittadinanza, favorendo anche la partecipazione e l’integrazione dei soggetti deboli per condizioni familiari, fasce di reddito o etnie diversificate.
La seconda negazione riguarda la tutela, la conservazione e la valorizzazione stessa di quei beni, fino ad ora assegnate alla professionalità dei dipendenti pubblici, in via di esaurimento fisiologico per la mancanza di ricambio generazionale.
La terza negazione investe lo stesso dipendente pubblico, costretto a portare il peso di un processo mediatico denigratorio, che lo qualifica anche indipendentemente dai fatti quale furbo, fannullone e parassita.
In questo nuovo sistema di valori lo stato svuota sé stesso, rinunciando a proteggere adeguatamente i beni culturali e gli stessi addetti ai lavori: il paradosso che si crea è una potenziale condizione di “svendita” del patrimonio pubblico, sia in senso economico – favorendo la massiccia ingerenza di enti privati – sia in senso culturale, poiché filtra l’idea che nulla possa fare la differenza in positivo, e che i dipendenti pubblici non diano sufficienti garanzie di tenuta istituzionale nell’amministrazione dei beni comuni.
Un segnale allarmante di tale suicidio culturale proviene, ad esempio, dalla tipologia contrattuale di direttori e conservatori di nuova nomina nei musei civici, più frequentemente trasformati in fondazioni a partecipazione privata, dove si assiste alla crescita di cariche a tempo determinato o affidate a esterni su chiamata dell’amministrazione, mentre un tempo la norma prevedeva cariche a tempo indeterminato e maggiore autonomia dei ruoli istituzionali.
L’incertezza derivante da questi processi investe il cittadino, spesso indotto a visitare esposizioni temporanee di grande richiamo e a vocazione consumistica, trascurando la fruizione di musei e beni culturali del territorio, indeboliti dal sistema in atto e talvolta incapaci di offrire concorrenziali e adeguati servizi pubblici gratuiti.
L’emergenza in essere non può essere demandata solo alle associazioni di categoria e alle organizzazioni sindacali, poiché sono più che mai necessari meccanismi di partecipazione attiva della cittadinanza, chiamata a riappropriarsi della dimensione pubblica di spazi, luoghi e territori, affinché le generazioni future siano ancora depositarie di valori condivisi.
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