Banalizzare il bene culturale? Parliamo di musei. - di Debora Tosato -

 Da qualche tempo i musei italiani stanno vivendo una nuova stagione “culturale”. Trascorsa l’epoca in cui nell’immaginario collettivo erano ancora considerati luoghi di culto, un poco impervi e adatti a un pubblico di amatori o addetti ai lavori, si sono ora trasformati in dilettevoli spazi di

ritrovo, animazione e intrattenimento per ogni tipologia di visitatore: bambini, adolescenti, adulti e famiglie incentivate a testare un “percorso”costruito su misura per soddisfare ogni tipo di bisogno.

 

Le iniziative pensate per attirare un pubblico vario e sempre più numeroso contemplano offerte differenziate: dalle “invasioni digitali”, pensate per i nativi “social” che hanno grande familiarità con lo smartphone – alle letture, ai concerti, alle “app”, all’aperitivo coniugato a visite e laboratori didattici.

 

Il lodevole tentativo, in tempo di crisi, è quello di riempire i musei incrementando il numero di visitatori.

 

Questa scelta, tuttavia, rischia di convogliare energie e sforzi in un’affannosa corsa agli eventi, che possono moltiplicare l’offerta ma devonocomunque tenere conto di obiettivi e missioni atte a identificare un museo rispetto a un altro, rendendolo unico e irripetibile.

 

 

Le persone ricorderanno qualcosa del museo che hanno visitato? Qualcosa che le spingerà a ritornare?

 

La tendenza sempre più diffusa a riempire vuoti, a catturare e consumare immagini senza criterio e a coprire di suoni o rumori il silenzio si è diffusa anche nei musei, negando – di fatto – il principale intento di questi templi dell’arte.

 

I musei sono luoghi sacri, da visitare nel silenzio interiore, in cui si compie il miracolo di educare lo sguardo e l’anima a contemplare immagini parlanti di secoli fa, frutto della manualità dell’uomo, dell’ingegno e dello spirito divino.

 

Luoghi in cui possiamo misurare i passi e creare rapporti di comunicazione con l’opera che ci sta di fronte e con l’artista che l’ha realizzata. Luoghi dove ci insegnano a leggere le storie, a riconoscere lo stile e a familiarizzare con i materiali e la tecnica.

 

Azioni che necessitano di tempo e pazienza, di passione e devozione.

 

Quando l’identità di un museo e di un’opera d’arte si sedimentano nello spettatore, come accade con la lettura di un libro, allora significa che nasce un’appartenenza.

 

Diversamente, tutto quello che si produce è destinato a essere sterile e privo di senso sul lungo periodo. Le misure per incrementare i flussi, gli orari di apertura indifferenziati – dal giorno alla notte – le giornate di ingresso gratuito appaiono come operazioni di mercato per un pubblico di massa, quando non sono adeguatamente “sorvegliate” da un progetto scientifico e da solide attività di salvaguardia e valorizzazione dei luoghi pubblici e delle collezioni d’arte.

 

E’ inoltre più che mai necessario ribadire che esistono priorità di tipo culturale, e non economico: i musei, le aree archeologiche, i paesaggi naturali sono beni dell’umanità, destinati in primo luogo a generare una crescita dell’individuo e della collettività.

 

Ogni meccanismo di sfruttamento nasconde un messaggio subdolo, vale a dire che i beni culturali debbano produrre ricchezza materiale affinché possa essere garantita la loro sopravvivenza per la fruizione e il godimento di servizi pubblici.

 

 

 

Se passa questo assunto, si genera il rischio che musei grandi e piccoli, considerati “improduttivi”, possano essere appaltati a privati per usi particolari e finalità esclusive.

 

L’unico baluardo contro la banalizzazione del sistema culturale attualmente in atto è ristabilire la prevalenza del criterio scientifico, in tutte le sue forme e le sue espressioni: studiare e insegnare la storia dell’arte nelle scuole e fare didattica nei musei, garantire ottimali condizioni conservative alle opere, restaurare gli edifici pubblici salvaguardandone storia e vissuto.

vuoi condividere?

Scrivi commento

Commenti: 0