Periferie, chi ne parla più? - cosimo arnone -

Maccheccavolo stamo in prima pagina stamo.” C'è un'insolita elettricità al bar villanova, campari col gin che vanno e vengono, patatine rinseccolite e olivette vecchie che galleggiano nei bicchieri per il vino, come se piovesse. Pocaluce s'è dato 'na ripulita e pontifica: “stamo 'n prima pagina, stamo. Se so accorti de noi, se so accorti. Noi semo 'a periferia, semo i periferici, noi semo quelli che amo votato contro, c'anno rotto e mo se ne so accorti. Noi nun contavamo un cazzo e mo' semo quelli decisivi, semo i contrari.” Lo sciancato stava storto, lavava le tazze dei cappuccini sbavate col rossetto da Pamela e

ascoltava il televisore in sottofondo, il legame fra le amministrative in Italia e il referendum in gran bretagna era incontestabile, pare che la gente che tutti normalmente schifano abbia votato contro il potere, qualunque potere, più o meno. Ste cose le aveva già viste, sapeva che ora i discorsi erano di un tipo e poi sarebbero stati con la stessa conclusione: fottiamoli, senza pietà. Se c'è una periferia, c'è un centro, sarebbe stato possibile un centro senza periferie? Tutto il mondo gli appariva una gigantesca periferia con un centro minuscolo. Robba de geometria pensò, tanti anni prima si parlava di decentramento, poi certi papponi der nord avevano scarcerato il termine secessione e poi ancora il federalismo, cent'anni che si parlava e ora di nuovo a riempire le pagine dei giornali, le facce dei telegiornalisti, le guanciotte pasciute dei personaggi televisivi con l'espressione corrucciata a raccontare delle periferie loro che l'hanno sempre scansate. Vabbè mica me posso mette a fa polemica co pocaluce pensò strofinando il rosso delle labbra di Pamela dalla tazza del cappuccino con tanta schiuma e un'ombra di cacao. Pocaluce no, pocaluce s'era messo sotto il lampadario e arringava la folla formata da Checco e Lillo. “Noi periferici dovemo fa pesà che semo periferia, a noi nun ce lo leva nessuno er titolo, senza de noi se ferma tutto, ‘a cronaca nera, ‘e case che fanno schifo, li stranieri che s’ammucchieno uno sull’artro puro dentro le cantine. Noi periferie famo odience, nun se lo scordamo, che ne sai che magara viene quarcuno daa televisione e me ripia proprio a me e magara m’envita pure da quarche parte a raccontà la vera vita di un vero periferico.” Checco annuiva e se scaccolava. Lo sciancato di spalle al pubblico indaffarato col cappuccio chiaro e spolverata di cacao, per Luisella, sbuffava. Si sentiva cent’anni addosso. Aveva abitato coi calabresi, i pugliesi, i siciliani, i marchigiani, insomma i rumeni, gli albanesi, i ghanesi, i nigeriani di oggi, in una delle tante borgate di Roma, senza luce pubblica, senza le fogne. Muratori, carpentieri, donne delle pulizie, qualche accattone, qualche ladro, gente che s’arrangiava e lavorava, gente che lavorava arrangiandosi. Si camminava più a piedi che con i mezzi pubblici, si parlava forte in mezzo alla strada. Lo sciancato si ricordava delle periferie e sbuffava dietro al cappuccino chiaro. Il mondo era cambiato, giuda chi dicesse il contrario, adesso non era il tempo dei cappotti rovesciati, delle scarpe portate cento volte a risuolare, c’è più spesso la luce nelle strade e le fogne quasi dappertutto. Però rimanevano le periferie e adesso facevano pure notizia. Quando presero le case popolari dopo occupazioni e lotte e pure la morte di Fabrizio Ceruso a San Basilio, avevano pensato che magari c’era ancora da fare tanto ma si stava un pezzo avanti rispetto alle baracche, al freddo, ai sorci. Invece no, dopo tanto, ancora coi nuovi calabresi ammucchiati dentro le cantine, con l’immondizia che sembra viva per come cresce in mezzo alle fratte. Pocaluce voleva andare in televisione, Pamela pure e intanto aveva messo su feisbuc una foto con le zinne de fori. Avevano votato compatti. Chi contro i nuovi calabresi che nun se li potemo permette de mantenelli, chi contro i ladri che tanto so’ tutti uguali è tutto un magna magna e tocca da esse onesti. Nessuno aveva sentito altro per televisione, nessuno aveva visto altri per le strade, lo sciancato era stanco, non parlava volentieri, dietro al bancone li guardava tutti, ripensava a quel ragazzino barista pure lui che a San Basilio c’aveva lasciato la pelle. Riguardava l’umanità del suo bar, le periferie, il centro, la rivoluzione informatica che doveva cambiare il concetto stesso di ordine geometrico, si girò verso Pamela che smanettava sul telefonino, diede uno sguardo alle zinne che c’aveva e sbottò: “spero che ve la pijate in der culo tutti.” Ci fu silenzio per un attimo, poi per un altro attimo, poi dopo un altro attimo, Lillo chiese per favore una birra col gin.

daje

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