35 euro al giorno, mangiati e dormiti - cosimo arnone -

L’ora legale è arrivata pure al bar villanova, fa buio prima, non ci sono le macchinette mangia soldi, l’unico sottofondo al cbiacchiericcio è il televisore. Romanisti e laziali se le danno di santa ragione: state sempre sotto a gallinacci dicono gli uni, so’ l’arbriti che ve fanno annà l’acqua pè l’orto rispondono gli altri. Sullo schermo le immagini dell’ennesimo sbarco, qualche

morto, regazzini soli, na’ donna incinta, le divise dei volontari e dei marinari. Lampedusa sembra un punto fermo pure in mezzo al mare. Il bar villanova no. Tutto sembra che ribolle, pocaluce infatti lancia la prima botta: “eccheli va, artra gente che sfameremo noi, ma checcazzo se parteno, er mare è brutto, poi se lamenteno che quarcheduno ce rimane. Rimanessero a casa loro che noi lì, li dovemo aiutà. Noi eravamo lavoratori, a noi nun c’ha regalato niente nisuno, noi semo annati a spigne. Italiani popolo de lavoratori.”

Banana un po’ annuiva un po’ stava in imbarazzo. Stava co’ ‘na negra che era arrivata coi barconi e adesso stava a servizio da certi signori de Mentana. Agnese, infermiera al paese suo e qui collaboratrice domestica e tuttofare sanitaria de certi signori bravi che la pagavano co’ dei foietti chiamati voucher. Era stata fortunata e ringraziava sempre dio, la madonna e tutti i santi, meno che quando stava co’ banana. Banana la castigava forte e lei se dimenticava der viaggio, dei vecchi che accudiva e puro de dio e tutti l’angeli in colonna. Mentre se discuteva ancora de un rigore dubbio, Pocaluce insistette: “ e poi 35 euri ar giorno pè nun fa un cazzo, li vorrebbe puro io, che coll’invalidità che c’ho mica c’arivo ai sordi loro”. Eccoli tiè, se fanno er giretto in barca, c’hanno er telefonino, noi l’ospitamo, li lavamo, li stiramo, e je damo pure ‘a paga giornaliera. Prima l’italiani, poi si avanza quarche cosa, allora pure a loro” Qualcuno alzava la testa per annuire, qualcuno faceva finta di non sentire, al bar villanova era così, come a quer posto a Londra, basta che c’hai ‘no sgabello, ce monti sopra e poi dì tutto quello che cazzo te pare. Banana fremeva, ma mica per qualche cosa, Agnese era venuta a trovarlo e da qualche minuto stava al bancone vicino allo sciancato, stava zitta senza dire una parola. Era un donnone, vestita colorata, con un profumo dolce addosso, forte, e i capelli neri neri e lucidi e lunghi. Banana nun aveva fatto in tempo a segnalare la sua presenza a Pocaluce e, per attirare l’attenzione, aveva cominciato a parlare molto forte: “ ma che nun se beve più?” Pocalù invece de parlà paga da beve che avete puro vinto stasera”.

 

Macchè, Pocaluce era in trance, “ me ce cambierebbe subbito co’ sti stracomunitari, magara mi darebbero a me 35 euri ar giorno, cor cazzo che me lamentavo, er governo deve pensà a noi che pagamo ‘è tasse”.

 

Agnese, prese lei il campari col gin e lo porse all’imbarazzato Banana, co’ na sisa bella dritta je sfiorò i bicipiti e se trovò faccia a faccia co’ Pocaluce. Sorry, disse, lei parla inglish? No, io sto a casa mia, parlo ‘a lingua mia. Bene – Agnese imperturbabile- allora parliamo con la sua lingua: 35 euro al giorno glieli posso dare io. Magara subito, replicò Pocaluce, me li pijerrebbe subbito.

 

Lei mi da sua figlia. Non le farò niente di male, soltanto non le dico dove sta.

 

Lei mi da la sua casa. Non la distruggerò, soltanto non la farò più entrare dove è nato e cresciuto.

 

Lei mi da sua moglie, non le succederà niente di pauroso, soltanto non dovrà sapere se potrà mai rivederla e dove.

 

Lei mi darà la sua automobile, oppure la sua motocicletta oppure la sua bicicletta, se ha un cane oppure un gatto o delle galline dovrà dirgli addio. Mica per niente, noi stracomunitari come dice lei, non possiamo permetterci niente di tutto questo, sono le prime cose di cui facciamo a meno. Ci spogliamo come le cipolle, prima una cosa poi quell’altra cosa, poi gli affetti.

 

Smetterà il suo lavoro, se lavora, smetterà di studiare se studia. Starà in un recinto con delle baracche per dormire ad aspettare ogni giorno che qualcuno si ricordi di lei e della domanda che ha fatto per essere accolto. Aspetterà ogni giorno notizie di sua figlia, aspetterà notizie di sua moglie. Cercherà, parlando coi volontari di sapere se sono vive oppure no e magari lo saprà, oppure no, non lo saprà. Magari arriva una notizia dopo qualche mese, un frammento, pare che le abbiano viste ma non è sicuro. Pare che abbiamo visto una ma non l’altra. Tutti i giorni le arriverà il necessario per le sigarette e per telefonare. Mangerà insieme agli altri, cibi diversi da quelli che ha sempre mangiato, cucinati in maniera diversa da come li ha sempre cucinati lei. Tutti i giorni penserà alla sua terra, tutti i giorni si domanderà se ha fatto bene a partire, un giorno penserà di si, un giorno penserà di no. Le notti, quando si alzerà a pisciare nei bagni comuni, sentirà l’odore di urina, di sudore, di povero, tutte le notti fino a quando qualcuno dirà che ha diritto, oppure che non ha diritto. Mesi ad aspettare una frase di due o tre parole e senza niente, non sua figlia, non sua moglie, non i suoi amici, niente. Tutti erano ammutoliti, Pocaluce aveva le guance allappate, ‘na spece di secchezza delle fauci come si legge nei bugiardini. “ Vabbè so’ cose che se dicheno, mica so’ razzista, ce so tanti italiani che se la passano male e magara se la pijamo co voi che magara nun c’entrate ‘ncazzo, scusi signora, niente.” Nun so’ trentacinque euri” dal bancone Remo la guardia, fece sentire la sua voce, ero grosso e faceva er vigilante, turno de notte, passava prima de chiusura al bar villanova che lo sciancato je rigalava i cornetti avanzati, pè facce colazione er giorno dopo. “Nun so neanche 30 e nimmanco 20, nun je danno ‘ncazzo, scusi signora, niente. Co’ 35 euro devono magnà e dormì dentro a certe strutture che ce guadagnano pure sopra con le gare a chi chiede de meno. Nisuno camperebbe co’ qua cifra magnato e dormito. “Vabbè se ne senteno tante, però noi italiani mica saa passamo tanto mejio” Pocaluce replicava debolmente, un po’ contrariato, un po’ dubbioso della sua tesi. “Dajè n’po regà se fatta ‘na certa, e demo da chiude”. Lo sciancato, straccio in mano, strofinava il bancone, Agnese s’era accoccolata sul banana e gli faceva sentire le zinne sul braccio. Banana si sentiva un uomo: “io c’ho sempre er cazzo dritto pure che so ‘n poveraccio, ma ho capito che so un poveraccio perché ce stanno quelli coi sordi. Nun è corpa mia, io se posso je do ‘nculo a quelli coi sordi, mica ai negri.” Agnese gli strinse il braccio forte, Banana si riprese. Vabbè m’avete capito, morammazzati.

ce staressimo tutti

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